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Presentazione Dario Franceschini - Ministro dei beni e delle attività culturali e del turismo
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Presentazione di Carlo Birrozzi, Soprintendente Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche e Eike D. Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi
La mostra Facciamo presto. Marche 2016 - 2017: tesori salvati, tesori da salvare che apre al pubblico il 28 marzo nell’Aula Magliabechiana degli Uffizi presenta una selezione di capolavori provenienti dalle cittadine e dai paesi dell’entroterra appenninico delle Marche meridionali, colpiti dal terribile terremoto che ha quasi distrutto o reso inagibili le chiese, i palazzi e i musei dove questi oggetti d’arte erano custoditi, spesso fin dalla loro origine.
Le opere esposte sono tra le gemme più preziose di un territorio che sorprende per la ricchezza straordinaria e inattesa del suo patrimonio d’arte e di storia: una raffinata raccolta di dipinti su tavola e su tela, di sculture lignee, tessuti e oreficerie.
Si tratta di un’opportunità molto importante oltre che eccezionale per far conoscere al pubblico alcuni tesori dei territori dell’entroterra marchigiano meridionale, spesso tuttavia trascurati e negletti dai resoconti relativi agli eventi sismici che hanno martoriato il Centro Italia. La mostra ha infatti come intento primario quello di rammentare perentoriamente a tutti l’estrema urgenza di salvare dalla distruzione e dalla dispersione questo patrimonio.
Le splendide opere d’arte esposte sono state scelte con il criterio di rappresentare tutto il territorio marchigiano colpito dal sisma, molto vasto e comprendente parte delle province di Ascoli Piceno, Fermo e Macerata, nonché gli enti coinvolti nella tragedia in quanto proprietari di questi stessi beni, vale a dire le Diocesi, i Comuni, gli Ordini religiosi regolari maschili e femminili. Quelle in mostra e le tantissime altre opere rimosse e portate nei vari depositi temporanei allestiti dopo i crolli e i sommovimenti tellurici di agosto e ottobre del 2016 erano per lo più custodite sino dalla loro creazione nelle chiese, nei palazzi e in seguito nei musei di una vasta area dell’entroterra appenninico delle Marche meridionali. Questi edifici per lunghi anni saranno una vera giungla di tubi innocenti e di impalcature e occorreranno decenni per far tornare nella loro sede originaria tutte le opere d’arte che sono state portate via in fretta per sottrarle alla distruzione. Un’operazione che stanno ancora compiendo con tanta fatica e coraggio per il pericolo di possibili e ulteriori crolli degli edifici, persone generose e competenti: i vigili del fuoco, i carabinieri, l’esercito, il personale delle soprintendenze - nelle cui fila alcuni architetti e storici dell’arte delle Gallerie degli Uffizi - e i volontari della protezione civile.
La scelta delle opere da esporre è stata fatta con l’intenzione di mettere in luce alcuni aspetti cruciali della cultura figurativa di questi territori a partire dal Medioevo fino al XVIII secolo.
Ad accogliere i visitatori della mostra è il capolavoro della pittura marchigiana del Quattrocento, la pala raffigurante nella tavola principale l’Annunciazione e nella lunetta sovrastante il Cristo in pietà del Museo di Camerino, che si può considerare l’opera manifesto del Quattrocento camerte realizzata dal riscoperto Giovanni Angelo d’Antonio da Bolognola, protagonista principale di questa scuola.
Quella di Camerino è una delle numerose scuole pittoriche marchigiane del Quattrocento, ognuna con i suoi artisti e con una precisa fisionomia di stile e di cultura. A rappresentare in mostra la scuola di San Severino Marche, è la preziosa tavoletta cuspidata con la Madonna col Bambino, realizzata intorno al 1480 da Lorenzo d’Alessandro per la chiesa delle Clarisse di San Ginesio, in cui si riconoscono i termini essenziali della formazione artistica e del primo svolgimento stilistico del pittore settempedano, vale a dire il riferimento privilegiato al folignate Niccolò Alunno e i contatti con Carlo Crivelli. La personalità di quest’ultimo, un grande pittore veneziano errante passato da Venezia a Padova, da Padova a Zara, da Zara alle Marche - dove risulta documentato a Porto San Giorgio e Massa Fermana e quindi ad Ascoli e Camerino per poi finire i suoi giorni forse a Fabriano - ebbe una importanza fondamentale per la cultura figurativa delle Marche, perché a lui si deve, insieme al fratello minore Vittore, la diffusione di una corrente pittorica le cui radici sono nel mondo padovano, che si sviluppa tra Dalmazia e Marche definita come “Rinascimento Adriatico”. A rappresentare in mostra i due fratelli veneziani sono la Madonna di Poggio di Bretta di Carlo, oggi al Museo diocesano di Ascoli Piceno, e la Madonna adorante il Bambino di Vittore nella chiesa di San Fortunato di Falerone.
Infine a illustrare la pittura del Quattrocento nell’alta valle del Nera, epicentro del sisma, sono la tavola di Paolo da Visso, risplendente per i colori vivissimi delle sontuose decorazioni sul fondo d’oro, proveniente proprio da uno dei luoghi più colpiti dal terremoto, essendo stata realizzata per la chiesa di Nocelleto, località dei Monti Sibillini nei pressi di Castelsantangelo sul Nera, e il piccolo trittico qui attribuito a Benedetto di Marco, allievo di Paolo da Visso, recuperato in frantumi sotto le macerie della chiesa di San Vittorino di Nocria nei pressi di Castelsantangelo sul Nera dove si trovava sull’altare maggiore.
Al termine del XV secolo, le Marche con la fine delle autonomie locali perdono anche la propria autonomia figurativa. Si assiste allora all’inizio del Cinquecento all’arrivo nella regione di opere di artisti “forestieri” che non si limitarono ad inviare nella Marcha le loro opere bensì in alcuni casi vi soggiornarono per lunghi periodi della loro esistenza, scegliendola di fatto come loro terra d’elezione. Per fare un esempio basti ricordare Cola dell’Amatrice a lungo residente ad Ascoli Piceno; in mostra il pittore e architetto amatriciano è presente con la tavola raffigurante la Madonna col Bambino e i santi Vittore, Eustachio, Andrea e Cristanziano del 1514, proveniente dalla chiesa di San Vittore di Ascoli Piceno e ora nel locale Museo Diocesano.
Nel 1501 arrivò a Matelica nella chiesa dei Francescani, dove tuttora si conserva, uno dei capolavori assoluti della pittura del primo Cinquecento italiano, la grandiosa ancona con la Madonna in trono e i santi Francesco e Caterina d’Alessandria del romagnolo Marco Palmezzano, ancora completa della sua magnifica cornice lignea intagliata e dorata.
La ripresa di un linguaggio figurativo di sapore locale si ebbe nelle Marche soltanto nella seconda metà del Cinquecento. A rappresentare questa fase della storia figurativa della regione sono due splendide tele d’altare, aggiornate alle nuove esigenze della Controriforma cattolica. La prima raffigurante il Transito di san Martino fu eseguita da Simone De Magistris, uno degli artisti più interessanti della seconda metà del Cinquecento marchigiano, per l’altar maggiore della collegiata di San Martino a Caldarola, dove tuttora si trova, come parte della complessa decorazione pittorica e plastica della zona absidale della chiesa distrutta dal terremoto del 1799, commissionata a Simone De Magistris dal potente cardinale Evangelista Pallotta, creato di Sisto V, il grande pontefice d’origine marchigiana che impresse una forte influenza sulle vicende storiche e culturali della sua terra natale.
L’altra pala raffigurante l’Assunzione della Vergine con i santi Francesco e Chiara è firmata da Andrea Boscoli (Firenze 1564(?)-Roma 1608) e fu eseguita per l’altare dedicato all’Assunta nella chiesa di San Francesco a San Ginesio. Databile verso la fine del soggiorno marchigiano, intorno al 1605, è giustamente considerato una delle opere più rilevanti dell’attività in terra adriatica del pittore fiorentino.
La pittura del Sei e del Settecento nei territori marchigiani colpiti dal terremoto è rappresentata in mostra da quattro tele di grande fascino: la prima raffigura La Vergine col Bambino appare a Santa Francesca Romana e giunse ad Ascoli Piceno nel 1655 ad arricchire il rinnovato corredo di pale d’altare della chiesa di Sant’Angelo Magno, voluto dall’abate Ciucci, che si avvalse dei maggiori artisti attivi a Roma. La seconda tela raffigura la Conversione di san Paolo ed è un’opera cardine di Giovan Battista Gaulli, detto il Baciccio, databile agli anni tardi della sua attività intorno al 1700, quando il pittore genovese si apre verso la nuova sensibilità settecentesca. La mancanza di prove documentarie non autorizza a ritenere l’opera estranea al contesto del borgo di Fiastra, dove si trova nella chiesa dei santi Lorenzo e Paolo, visto che i rapporti della Marca con Roma furono per tutto il Sei e Settecento talmente ramificati e capillari da coinvolgere non solo le città principali, ma l’intero territorio della regione, fin nei centri più appartati e subalterni.
La tela di Pier Leone Ghezzi, discendente da una famiglia originaria di Comunanza ma attivo a Roma nella prima metà del Settecento, è una realistica testimonianza figurativa delle conseguenze di un rovinoso terremoto ed è pertanto un interessantissimo esempio delle nuove istanze della pittura settecentesca nella regione, precocemente orientata verso la rappresentazione della cronaca, e non solo della storia. Il dipinto commemora la scossa che colpì Benevento il 5 giugno 1688 ma nello stesso tempo celebra la salvezza, voluta dalla protezione divina, del cardinale Vincenzo Maria Orsini, destinato a divenire papa col nome di Benedetto XIII.
L’arrivo nel 1740 a Camerino nella chiesa dei Filippini della grandiosa pala d’altare con la Visione di san Filippo Neri, capolavoro di Giambattista Tiepolo, chiude il tradizionale e secolare interscambio culturale tra le Marche e Venezia.
Quattro sculture lignee documentano in mostra la grande stagione di questo genere di produzione artistica e devozionale insieme fiorita nei centri della dorsale appenninica marchigiana durante il Quattrocento. In particolare va segnalata la poetica Madonna col Bambino, databile alla fine degli anni novanta del Quattrocento e ascritta a uno scultore ancora anonimo a cui è stato dato il nome di “Maestro della Madonna di Macereto” dal luogo – il grandioso santuario di Macereto, località isolata sui monti non lontano da Visso – in cui originariamente il simulacro si trovava prima di essere esposto nel Museo Civico Diocesano di Visso.
Pochi pezzi ma di straordinaria qualità rappresentano in mostra la storia dell’oreficeria nelle Marche. Aprono la serie di oggetti esposti due croci, quella di fine Duecento, miracolosamente scampata alla distruzione della chiesa parrocchiale di Pescara del Tronto, dove si conservava, e quella detta di San Marco del primo quarto del Quattrocento appartenente al corredo della collegiata di Visso e ora nel locale Museo.
Simbolo della celebrata produzione de’”li magistri” di Ascoli Piceno è la statua argentea di Sant’Emidio del maggior rappresentante di questa scuola orafa, Pietro Vannini, documentato tra il 1413 e il 1496, anno della sua morte. Lo splendido simulacro d’argento del patrono d’Ascoli nonché protettore contro i terremoti fu commissionato dal Capitolo della cattedrale ascolana e realizzato nel 1487.
Alla memoria di Sant’Emidio si lega anche un altro eccezionale manufatto presente in mostra, il notevole frammento di tessuto con scene di caccia, sciamito di seta operato e broccato di produzione siriaca databile tra la fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo. Ora conservato al Museo Diocesano di Ascoli Piceno, lo sciamito fu ritrovato alcuni anni fa nei depositi della Cattedrale di Ascoli Piceno; esso era stato impiegato nell’XI secolo per custodire le reliquie del patrono, il martire Emidio, quando i sacri resti vennero traslati nella cripta del duomo dall’antico oratorio extra-urbano sorto sul luogo dove nel 303 sarebbe avvenuto il martirio.
A illuminare la mostra è forse il capolavoro assoluto dell’oreficeria di ogni tempo, il Reliquiario donato nel 1587 a Montalto Marche da papa Sisto V, a sottolineare il suo ruolo di munifico benefattore nei confronti della sua “patria carissima”. A dar conto dell’importanza di questo oggetto basterà ricordare che dalla sua creazione verso gli anni settanta del Trecento nelle officine parigine promosse dai Valois, il Reliquiario appartenne in sequenza a Federico IV del Tirolo, a Leonello d’Este, al cardinale veneziano Pietro Barbo, poi papa col nome di Paolo II, e infine al pontefice marchigiano che lo legò alla sua terra.
L’ultima oreficeria selezionata, il busto reliquiario di san Francesco di Paola del Museo Diocesano di Montefortino, opera datata 1725 e marcata dall’argentiere Angelo Spinazzi, illustra l’altissimo livello qualitativo raggiunto dall’arte orafa romana del Settecento.
In mostra sono presentate inoltre tre campane recuperate dai crolli dei rispettivi campanili, quelli della chiesa del castello di Carpignano nelle vicinanze di San Severino, della chiesa di San Francesco ad Arquata del Tronto e della Torre Civica della stessa cittadina quasi distrutta dalla scossa del 24 agosto 2016, molto più grave perché ha causato la morte di tante persone. Come le croci processionali, le campane sono state sempre conservate gelosamente negli anni dalle comunità in quanto oggetti che avevano un valore per così dire ‘civile’, costituendo il segno dell’unità del popolo cristiano che si riuniva nelle cattedrali e nelle pievi, o nelle adunanze nel palazzo comunale. La loro presenza in mostra è un auspicio a queste popolazioni così provate dal sisma di tornare presto a vivere nelle loro città.
Chiude il percorso il manoscritto autografo dell’idillio più famoso composto dal poeta Giacomo Leopardi, l’Infinito, proveniente dal Museo di Visso, scelto come simbolo del valore che i beni culturali di questi territori rappresentano per la civiltà italiana.
Le Gallerie degli Uffizi con questa mostra hanno voluto offrire la loro solidarietà e il loro aiuto ai territori terremotati. Questo non solo dando visibilità ai dipinti, alle sculture e alle oreficerie esiliate dalle loro sedi di origine distrutte o ferite dal terremoto e che non dobbiamo dimenticare, ma anche prestandosi ad un aiuto concreto. Di ogni biglietto che verrà acquistato per accedere agli Uffizi nel periodo della mostra verrà destinato € 1,00 (o € 0,50 in caso di biglietto ridotto della metà riservato ai giovani tra i 18 e i 25 anni) al risanamento dei danni inferti dal terremoto al patrimonio marchigiano.
«Dal tempo dell’eredità di Vittoria della Rovere nel 1631, le Gallerie degli Uffizi hanno un grande debito verso le Marche» afferma Eike Schmidt, Direttore delle Gallerie degli Uffizi. «Dopo i terribili eventi sismici è nostra volontà e nostro dovere morale aiutare quelle meravigliose terre. Esponendo i supremi capolavori salvati e ancora da salvare ai fiorentini e ai visitatori di tutto il mondo ne presentiamo la bellezza e al tempo stesso il disperato compito di solidarietà che chiama tutti noi. I proventi dei biglietti saranno devoluti alla ricostruzione delle aree colpite».
La mostra, a cura come il catalogo edito da Giunti di Gabriele Barucca e Carlo Birrozzi, è promossa dal Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, con il Segretariato Regionale del Ministero dei Beni e delle attività Culturali e del Turismo per le Marche, la Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio delle Marche, le Gallerie degli Uffizi e Firenze Musei.